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Shireen Abu Akleh, un funerale come estensione del viaggio

di Niccolò Rinaldi by ReWriters

La bara di Shireen Abu Akleh che quasi cade, durante il suo funerale, trasforma il suo ultimo viaggio in un epilogo non convenzionale.

Appartiene alla categoria dei viaggi, e tra questi è l’ultimo. Per questo è il più importante, ma anche il meno, prendendovi parte col corpo ma senza il soffio vitale, codificato in una ritualità che non passa di moda e uniforme, a meno di non spingersi fino all’India o al Madagascar.

A volte si cerca di ribellarsi alla mestizia di questo ultimo atto del viaggiatore, ravvivandolo con scelte predisposte nei dettagli, ma per quanto ci si sforzi le variazioni sul tema sono minime – funerali con più o meno privati, con più o meno discorsi, con la persistenza nei paesi della processione dietro al carro, o con la cerimonia laica o religiosa e la scelta delle letture.

Elsa Morante volle la musica dei Beatles a Santa Maria del Popolo, il costituzionalista André Auer, in una compassata Ginevra, fece cantare My Way a un po’ tutti i presenti. Portai sulle spalle le loro bare, a passi brevi, gli ultimissimi, e sempre con la sensazione che queste bare volevano fermarsi, essere lasciate a terra, non compiere i passi finali dell’ultimo viaggio.

Quella di Shireen Abu Akleh è quasi caduta, stava quasi schiantandosi per terra, vacillando sotto l’attacco della polizia israeliana, la quale pare aver fatto di tutto per animare il suo funerale, rendendolo a suo modo un capolavoro, e uno dei più visionati sulle reti del mondo (tra i tantissimi, si veda ad esempio il servizio dell’ABC).

La disinvoltura con la quale la polizia israeliana è intervenuta, strappando bandiere palestinesi, bloccando accessi, disperdendo i partecipanti, ha reso quello di Shireen Abu Akleh un ultimo viaggio come forse lei stessa lo avrebbe voluto: non convenzionale, personalissimo, unico in quanto demistificatore della violenza che durante il suo lungo impegno di giornalista ha sempre denunciato.

Americana e palestinese, palestinese e americana, reporter sempre a volto scoperto, mai una volta che possa essere stata tacciata di antisemitismo, viaggiatrice instancabile per i territori palestinesi, Shireen Abu Akleh colpiva per saper esprimere il massimo grado di professionalità e il massimo grado di testimonianza, lei che era al tempo stesso vittima e reporter, con i due ruoli che si sostenevano a vicenda.

Un volto femminile scomodo anche per pezzi del potere palestinese, con un suo stile che costituiva a sua volta il massimo grado di una certa classe nel reclamare un atto di verità in una terra dove vige l’impunità e la menzogna.

Come è accaduto nell’atto di chiusura del suo lavoro. È molto probabile che non saranno seriamente chiamati a rispondere né chi abbia sparato a una giornalista ben individuabile in quanto tale, né i  solerti agenti che hanno provocato la vergogna di un funerale senza pace.

E subito ci si è affrettati ad attribuire la colpa dell’omicidio ai palestinesi, ipotesi sempre meno plausibile per via dei tanti testimoni che hanno visto altro, e poi a giustificare l’azione della polizia ai funerali perché un folto gruppo di agitatori palestinesi si sarebbe impossessato della bara contro al volontà dei famigliari. Per smentire questa ricostruzione, si è scomodato perfino il Vaticano.

Dopo aver viaggiato per decenni da un luogo all’altro della Palestina, nello scempio generale, Shireen sarebbe forse rimasta soddisfatta del suo funerale – e da giornalista vi avrebbe realizzato un servizio.

È l’epilogo tragico di certi viaggi che durano una vita, come quello di Rachel Corrie, indimenticata giovane americana che un bulldozer israeliano schiacciò a Gaza mentre, armata solo di un megafono e di un gilet arancione per renderla ben visibile, cercava di proteggere dalla distruzione una casa di civili palestinesi.

Nei suoi diari, e nello spettacolo teatrale e radiofonico  presentati anche in Italia, questa fine pare annunciata, consapevole dei rischi del suo impegno di volontaria.

Shireen Abu Akleh e Rachel Corrie sono solo alcune delle tante donne coraggiose che hanno percorso cammini accidentati come la Palestina, con epiloghi che non avremmo voluto e funerali che di questi viaggi sono stati il sigillo.

 

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