Fabio Evangelisti

Proviamo a declinare un nuovo vocabolario di pace

Le scarne immagini e le notizie che ci arrivano dall’Ucraina, per quanto crude e cruente, temo non siano sufficienti a farci cogliere fino in fondo la drammaticità delle ore che si stanno vivendo sotto le bombe e i colpi d’arma da fuoco dall’esercito invasore.
Il numero di morti, da una parte e dall’altra, si conta già a migliaia, per non dire dei feriti, della fame, del freddo e del disagio e della paura di chi è costretto a dormire nella metropolitana o negli scantinati a Kiev, Kerson, Leopoli, Karkhiv, Odessa e Mariupol.
Al solito, fra le prime vittime innocenti che si registrano in una guerra c’è la Verità.
Subito sostituita dalla sua rivale: la Propaganda.
Stavolta, ho l’impressione che sia venuta meno fors’anche l’intelligenza di chi si ostina a leggere con gli schemi del passato una situazione che presenta aspetti inediti e quanto mai pericolosi.
Non c’è, infatti, soltanto la minaccia del ricorso all’atomica, sventolata irresponsabilmente da Putin. C’è il rischio concreto che qualcosa possa sfuggire di mano com’è apparso lampante venerdì scorso quando un incendio è stato domato a poche centinaia di metri da Zaporizhzhia (Enerhodar), la più grande centrale nucleare d’Europa e tra le 10 più grandi al mondo.
Ad ogni modo, qui e ora, mentre c’è da lavorare per il cessate il fuoco e per il ritorno al dialogo e alla trattativa, non si può non sottolineare che c’è un Paese aggredito all’interno dei propri confini (cosa che non succedeva dal 1939) e un Paese aggressore.
Certo il tutto va contestualizzato, storicamente e geograficamente, ma non si può negare la realtà che è sotto i nostri occhi.
Quindi sì la Nato che minaccia, sì gli Usa gendarmi del mondo, sì l’Occidente predatore, ma chi oggi nega le responsabilità di Putin si rende corresponsabile di una pericolosa escalation di un conflitto dagli esiti potenzialmente catastrofici.
Ricordandoci pure di quanto ha fatto in Cecenia e in Georgia e l’annessione della Crimea. Per non dire di assassini mirati (Anna Politoskaja) e avvelenamenti al polonio. 
Che fare, dunque? Davvero ai resistenti ucraini possiamo offrire soltanto coperte e cibo? Me lo domando, non ho le certezze che hanno molti dei miei interlocutori.
A livello globale, credo si debba continuare nell’attività diplomatica dei vari Macron e Bennet, leader israeliano, ma sollecitando soprattutto l’impegno di Cina, Turchia e India, interlocutori che oggi trovano un più attento ascolto ai vertici del Cremlino.
A livello locale, invece, nello nostro piccolo, proseguire nell’organizzazione di piccole e grandi iniziative a sostegno del dialogo e della pace. Pretendendo, certo, di partecipare al processo delle decisioni politiche, esprimendo ciascuno la propria opinione, come si è cercato di fare anche sabato 5 marzo a Roma e Massa.
Non è facile riassumere, in poche battute, la ricchezza di contenuti e il livello del confronto che s’è sviluppato a Palazzo Ducale, grazie all’iniziativa proposta da In-Nova – Officina delle Idee, presieduta da Alessandra Morandi, con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale guidata da Gianni Lorenzetti.
Il pubblico in sala, così come i tanti che si sono collegati alla diretta in streaming, ha comunque potuto apprezzare il senso del ragionamento sviluppato da Piero Fassino, Niccolò Rinaldi e Simona Bonafè.
Tutt’altro che un ‘convegno bellicista’ come qualche inconsapevole tifoso putiniano ha inteso definirlo.
Basti pensare alle commoventi testimonianze portate da Alina, una giovane ucraina, e da Svetlana, una signora russa, che da anni vivono nel nostro Paese e che sono oggi impegnate in concrete azioni di solidarietà per far arrivare vivere, medicinali, coperte e abbigliamento alla popolazione che soffre una primavera che forse non arriverà.
Il mondo, dopo il 24 febbraio non è più lo stesso, e la guerra (anche se Putin non vuole che si adoperi questa parola, pena 15 anni di carcere) non si combatte più soltanto nei solchi fangosi creati dai cingoli dei carri armati. Si combatte anche nel cyberspazio, nell’oscurare i siti televisivi, nel bloccare i social media, nel bloccare i pagamenti online e nel sequestro degli ingenti capitali degli oligarchi russi, cresciuti e arricchitisi alla corte del nuovo zar.
Sul campo, sicuramente Putin riuscirà ad arrivare a Kiev e piazzarci la sua bandierina o un suo fantoccio, “vincerà” la battaglia delle armi.
Ma, con altrettanta certezza, lui ne uscirà come il Grande Sconfitto nella Politica, nella Storia e agli occhi del suo popolo cui farà pagare un prezzo altissimo.
Ciò, tuttavia, non significa che noi saremo esenti dal subirne i costi. Basti pensare alla questione del gas (l’Italia ne dipende per il 40% del proprio approvvigionamento) e del petrolio.
Ogni giorno i Paesi dell’Unione europea versano circa 800 milioni di euro nelle casse russe, una cifra che sfiora i 340 miliardi all’anno.
Gas che non serve soltanto per accendere il riscaldamenti o fare il caffè al mattino, ma soprattutto per moltissime produzioni industriali, dalla carta all’industria pesante.
In conclusione, ma torneremo sull’argomento, occorre che ciascuno di noi produca uno sforzo per portare avanti l’idea di un nuovo alfabeto di pace che sappia andare anche oltre gli slogan con i quali siamo cresciuti sempre nel rigoroso rispetto della lettera e dello spirito dell’art. 11 della nostra Carta Costituzionale.

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