IL RITORNO DI TAFAZZI
di Fabio Evangelisti
Bene! Saranno contenti i miei amici duri e puri, sia di sinistra che di centro, che nei giorni scorsi avevano voluto manifestarmi in privato quanto sui social la propria indignazione per l’insana alleanza fra il Pd e Azione di Carlo Calenda.
Da oggi quel patto non esiste più! Via, stracciato in men che non si dica dallo stesso Calenda in diretta tv, ospite di Lucia Annunziata.
Invece, personalmente, avevo apprezzato lo sforzo compiuto da Enrico Letta per definire una coalizione tesa a contrastare il Centrodestra in vista delle elezioni politiche del 25 settembre.
Semmai, quel che meno mi aveva convinto era l’incompiutezza dell’operazione se è vero, com’è vero, che una larga coalizione serve/iva a contrastare i sovranisti nei collegi uninominali e mettere al riparo la nostra Carta costituzionale dalle pulsioni presidenzialiste di quella leader di destra, mannaggia, mi sfugge sempre il nome. Insomma, avete capito, mi riferisco a quella che sottolinea sempre il suo esser mamma e cristiana (non sposata, pur se convivente more uxorio).
Per cui, pur comprendendo il disagio e un certo senso di smarrimento di un elettore che trovava contraddittoria l’alleanza con Calenda da un lato e Fratoianni dall’altro, ho sempre cercato di spiegare – da sognatore – che la politica non è la realizzazione dei sogni, ma l’impegno per realizzare progetti concreti.
E, aggiungevo, che a furia di dividersi (rincorrendo i sogni) spesso si finisce dentro un incubo che si avvera, talvolta uno dei nostri peggiori incubi.
È quello che insegna la storia, ma che pochi hanno voglia di studiare o ripassare.
Il fatto è che non si può prescindere dalla legge elettorale (non diciamo, per amor di patria, da chi è stato voluto, scritto e votato il cosiddetto Rosatellum) che premia le coalizioni a scapito delle corse in solitaria.
Scriveva Giovanna Vitale su La Repubblica, prima dell’odierna frittata: «(…) lo schema degli accordi bilaterali e separati, imposto da una legge elettorale sciagurata, disegna un equilibrio che (a giudizio di Letta) può funzionare: di qua il patto programmatico con Calenda, fondato sulla prosecuzione dell’esperienza Draghi; di là, un’intesa elettorale siglata con quelle forze che non l’hanno condivisa, Sinistra italiana e Verdi, ma da tenere comunque dentro per evitare il cappotto negli uninominali».
Dal mio modestissimo punto di vista, se il senso dell’operazione era d’impedire che la destra facesse cappotto nei collegi uninominali perché – mi domandavo – escludere a priori (ammesso che questi fossero stati interessati e disponibili) Matteo Renzi e Giuseppe Conte? Perché rinunciare in partenza a un 15% di voti che avrebbe potuto fare la differenza nella competizione elettorale?
Chi mi segue (pur svogliatamente) avrà intuito la distanza politica che mi separa dai due, dal primo in particolare, che ho contrastato anche in beata solitudine quando ad attentare alla struttura costituzionale del nostro Paese era proprio lui, l’ex sindaco di Firenze.
Ma – oggi – se “chiamata alle armi” aveva da essere, perché chiudersi in un recinto rinunciando anzitempo a coltivare quello che soltanto poche settimane fa doveva essere un campo largo?
Perché non tentare anche con Italia Viva e Movimento 5 Stelle un’intesa “separata ma compatibile” come fatto ieri con Sinistra Italiana e Europa Verde? Perché aver messo tutte le uova nel paniere di Calenda?
Ieri, dopo aver letto che è meglio esser curiosi che intelligenti (mah!?), per pura curiosità intellettuale, ero per l’appunto andato a cercare i numeri sul sito della Ipsos, l’istituto demoscopico di Nando Pagnoncelli, per cercar di capire quali potevano essere gli scenari da qui a cinquanta giorni.
Gli ultimi sondaggi (da domani sarà un’altra storia) vedono un testa e testa tra Fratelli d’Italia (23,3%) e il Pd (23,2%), distanziati di un solo decimale, e a seguire Lega (13,5%), Movimento 5 Stelle (11,3%) e Forza Italia (9%). Tra gli altri, gli unici in grado di superare la soglia di sbarramento la federazione Azione/+Europa (3,6%), l’alleanza tra Sinistra italiana e Verdi (3,4%) e Italexit (3,1%).
Cito testualmente da quel sito: «(…) Il venir meno della possibile alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle assegna un netto vantaggio alla coalizione di centrodestra su quella di centrosinistra (45,8% a 33%)».
Lasciare al Centrodestra 15 punti significa che la partita si gioca realmente su 30 collegi uninominali (sui 221 che ci sono tra Camera e Senato), il che rende anche imbarazzante (per non dire ridicola) la maniacale divisione percentuale dei collegi nel centrosinistra (70%, 30% anziché 80%, 20%). Meno collegi per tutti ma più eletti, avrebbe dovuto essere il refrain. Anche perché, ricordiamolo agli sherpa coinvolti nelle trattative: vince chi ottiene più eletti nei collegi, non chi è bravo a strappare più candidature.
In conclusione: stiamo parlando di una differenza di 12/13 punti percentuali fra Csx e Cdx che son quelli che faranno la differenza fra una possibile vittoria e una sconfitta (ormai) certa.
Dunque, bentornato Tafazzi!
p.s. Per i più giovani, spiego che Tafazzi è un personaggio inventato dal trio Aldo, Giovanni e Giacomo sempre in calzamaglia nera con un sospensorio di colore bianco che, quando combatte, combina guai e che ama sovente battersi l’inguine con una bottiglia di plastica. Da tale personaggio è nato il tafazzismo, aggettivo (nonché atteggiamento) molto in voga a sinistra e che sta a indicare chi, con un’azione eclatante, masochista e incomprensibile, si procura pubblicamente danno fisico o morale e, soprattutto, politico.